§ III
L'Unità d'Italia
e il declino dopo la soppressione della provincia
Il 5 maggio 1860 parte il processo di unificazione dell'Italia. Da sud, dopo aver liberato Sicilia e
Calabria dal dominio borbonico (Spedizione dei Mille partita da Genova), il 7 settembre 1860
Garibaldi entra trionfalmente a Napoli con i Borboni costretti a ritirarsi a Capua e Gaeta
nonostante la precipitosa concessione della costituzione e l'adozione della bandiera italiana.
Da nord, dopo aver ottenuto con la II Guerra
d'Indipendenza Lombardia, Emilia, Romagna e
l'annessione pacifica del Granducato di Toscana, Vittorio
Emanuele II e Cavour (per timore che Garibaldi arrivi
fino a Roma e l'unificazione diventi di stampo
garibaldino anzichè sabaudo e per evitare l'intervento
dei francesi che proteggevano Roma), dopo aver
ricevuto l'autorizzazione da Napoleone III («fate, ma
fate presto»), inviano l'esercito piemontese attraverso
le Marche e l'Umbria con l'obiettivo di occupare lo Stato
Pontificio e di riunirsi con i garibaldini a Napoli. Pio IX
invia le sue truppe a nord ma sono più rapidi i
piemontesi che sono già scesi fino all'altezza di Ancona;
così il 18 settembre 1860 nell' improvvisa e decisiva
Battaglia di Castelfidardo l'esercito piemontese, guidato
dai generali Cialdini e Fanti, batte le truppe
franco-pontificie, guidate dai generali Lamoricière e De
Pimodan, occupa Ancona e gli altri capoluoghi.
Fermo viene occupata il 21 settembre dal gen. Pinelli che dichiara decaduto il Governo pontificio
e istituisce la nuova Giunta provinciale di governo presieduta dal conte Domenico Monti, liberale
(mentre dal 24 settembre il marchese Cesare Trevisani sarà il nuovo sindaco di Fermo); una
settimana più tardi, il 28 settembre, l'arcivescovo di Fermo, cardinale Filippo De Angelis, fu
tradotto nelle carceri di Torino su decisione del gen. Fanti perchè ancora si opponeva
all'unificazione e cospirava in modo giudicato pericoloso dalla nuova autorità, come vedremo
meglio più avanti.
L'offensiva sferrata all'interno, invece, incontra meno resistenza: i piemontesi proseguono
verso la Campania dove, nel frattempo, sul Volturno (1-2 ottobre) Garibaldi aveva già piegato
definitivamente le forze borboniche.
Infine a Teano (26 ottobre) c'è lo storico incontro tra il Re e Garibaldi: l'Italia è di nuovo unita
dopo oltre mille anni.
Le ostilità si chiudono il 13 febbraio 1861 con la presa di Gaeta dove erano rifugiati i Borboni,
che fuggono in esilio all'estero. Il 18 febbraio a Torino si riunisce per la prima volta il
Parlamento Italiano con i deputati di Napoli, Sicilia, Umbria e Marche. Il 17 marzo 1861 fu
proclamato il Regno d'Italia.
Sotto la sovranità papale restano ancora la città di Roma e parte del Lazio, ma nonostante ciò
Roma è "acclamata" capitale d'Italia.
Nel 1865 la capitale è trasferita da Torino a Firenze.
Dopo due tentativi vani di Garibaldi (che in uno fu anche ferito), Roma diventerà materialmente
capitale solo dieci anni più tardi, il 20 settembre 1870, con la sua presa da parte dei bersaglieri,
guidati dal gen. Cadorna che entrano attraverso la Breccia di Porta Pia e il 2 ottobre un plebiscito
approva l'unione di Roma e Lazio all'Italia.
Nel 1871, dopo oltre mille anni, la capitale torna ad essere definitivamente Roma e viene
approvata unilateralmente la Legge delle Guarentigie (Pio IX non risconosce il fatto compiuto e
si rifiuta di accettare tale legge) con la quale si attribuisce al papa l'inviolabilità e si lasciano in
dotazione al pontefice i palazzi del Vaticano, del Laterano e di Castel Gandolfo assegnandogli
una somma dal bilancio dello stato. Tale legge non fu mai riconosciuta dal Vaticano ma rimase
in vigore fino ai Patti Lateranensi del 1929 che regolarono definitivamente (fino ad oggi, salvo la
riforma del solo Concordato avvenuta nel 1985) i rapporti Stato-Chiesa.
FERMO CITTÀ NOSTALGICA, IL CARDINALE DE ANGELIS E IL DECRETO MINGHETTI, MAI
APPROVATO DAL PARLAMENTO, MA CHE DI FATTO LA PRIVA DELLA SEDE
AMMINISTRATIVA
Con la Battaglia di Castelfidardo era caduto lo Stato Pontificio nelle Marche e in Umbria, e con
il successivo plebiscito del 4-5 novembre 1860 l'intera regione era stata annessa allo Stato
Piemontese nel quale Fermo è capoluogo di una provincia con quarantasette comuni e 110.000
abitanti: le circoscrizioni territoriali delle Marche vengono confermate dal Decreto n. 568 del 6
dicembre 1860 del Regio Commissario per le Marche, Lorenzo Valerio (e sono sei: Urbino e
Pesaro; Ancona; Macerata; Camerino; Fermo; Ascoli).
Ecco i risultati del plebiscito negli undici comuni del mandamento di Fermo :
5224 si - 39 no - 6 nulli; però su 9144 aventi diritto al voto andarano a votare solo 5269 (3875
gli astenuti). Votò soltanto il 58% degli aventi diritto.
L'alto numero degli astenuti ebbe influenza negativa nel giudizio del ministro degli affari
interni Marco Minghetti sulla provincia fermana, già tradizionalmente molto vicina al papato.
Vittorio Emanuele II arriva ad Ancona via mare subito dopo il gen. Cialdini e visita i
capoluoghi delle Marche prima di proseguire per la Capania dove incontrerà Garibaldi. Il re
doveva recarsi anche a Fermo ma vengono frapposti ostacoli di ordine politico: Fermo restava
ancora una roccaforte del potere papalino, in città si trovavano i potenti cardinali Bernetti e De
Angelis, fermani. Il primo era segretario di stato Vaticano e in precedenza aveva contribuito
notevolmente all'elezione del papa regnante, Pio IX (Mastai Ferretti di Senigallia), mentre il card.
De Angelis era stato tra i principali candidati al soglio pontificio quando fu eletto Pio IX (non fu
eletto papa per pochi voti), era un indomito sostenitore del mantenimento del potere temporale
del papa e si opponeva ancora in modo fattivo (per non dire sovversivo) al processo
unificatore.
E' una situazione politica che peserà sul futuro della città.
A nulla serve la successiva visita "riparatoria" dei membri del comitato liberale fermano,
guidati dal conte Domenico Monti (ultimo presidente della provincia fermana e amico personale
del Re) che l'11 ottobre vanno ad ossequiare Vittorio Emanuele II a Grottammare, ospite dei
marchesi Laureati, ricevendo asssicurazioni sulla protezione di Fermo.
§ III
L'Unità d'Italia
e il declino dopo la soppressione della
provincia
Il 5 maggio 1860 parte il processo di
unificazione dell'Italia. Da sud, dopo aver
liberato Sicilia e Calabria dal dominio
borbonico (Spedizione dei Mille partita da
Genova), il 7 settembre 1860 Garibaldi entra
trionfalmente a Napoli con i Borboni costretti a
ritirarsi a Capua e Gaeta nonostante la
precipitosa concessione della costituzione e
l'adozione della bandiera italiana.
Da nord, dopo
aver ottenuto con la
II Guerra
d'Indipendenza
Lombardia, Emilia,
Romagna e
l'annessione pacifica
del Granducato di
Toscana, Vittorio
Emanuele II e
Cavour (per timore
che Garibaldi arrivi
fino a Roma e
l'unificazione diventi di stampo garibaldino
anzichè sabaudo e per evitare l'intervento dei
francesi che proteggevano Roma), dopo aver
ricevuto l'autorizzazione da Napoleone III
(«fate, ma fate presto»), inviano l'esercito
piemontese attraverso le Marche e l'Umbria
con l'obiettivo di occupare lo Stato Pontificio e
di riunirsi con i garibaldini a Napoli. Pio IX
invia le sue truppe a nord ma sono più rapidi i
piemontesi che sono già scesi fino all'altezza di
Ancona;
così il 18 settembre 1860 nell' improvvisa e
decisiva Battaglia di Castelfidardo l'esercito
piemontese, guidato dai generali Cialdini e
Fanti, batte le truppe franco-pontificie, guidate
dai generali Lamoricière e De Pimodan, occupa
Ancona e gli altri capoluoghi.
Fermo viene occupata il 21 settembre dal gen.
Pinelli che dichiara decaduto il Governo
pontificio e istituisce la nuova Giunta
provinciale di governo presieduta dal conte
Domenico Monti, liberale (mentre dal 24
settembre il marchese Cesare Trevisani sarà il
nuovo sindaco di Fermo); una settimana più
tardi, il 28 settembre, l'arcivescovo di Fermo,
cardinale Filippo De Angelis, fu tradotto nelle
carceri di Torino su decisione del gen. Fanti
perchè ancora si opponeva all'unificazione e
cospirava in modo giudicato pericoloso dalla
nuova autorità, come vedremo meglio più
avanti.
L'offensiva sferrata all'interno, invece,
incontra meno resistenza: i piemontesi
proseguono verso la Campania dove, nel
frattempo, sul Volturno (1-2 ottobre) Garibaldi
aveva già piegato definitivamente le forze
borboniche.
Infine a Teano (26 ottobre) c'è lo storico
incontro tra il Re e Garibaldi: l'Italia è di nuovo
unita dopo oltre mille anni.
Le ostilità si chiudono il 13 febbraio 1861
con la presa di Gaeta dove erano rifugiati i
Borboni, che fuggono in esilio all'estero. Il 18
febbraio a Torino si riunisce per la prima volta
il Parlamento Italiano con i deputati di Napoli,
Sicilia, Umbria e Marche. Il 17 marzo 1861 fu
proclamato il Regno d'Italia.
Sotto la sovranità papale restano ancora la città
di Roma e parte del Lazio, ma nonostante ciò
Roma è "acclamata" capitale d'Italia.
Nel 1865 la capitale è trasferita da Torino a
Firenze.
Dopo due tentativi vani di Garibaldi (che in
uno fu anche ferito), Roma diventerà
materialmente capitale solo dieci anni più tardi,
il 20 settembre 1870, con la sua presa da
parte dei bersaglieri, guidati dal gen. Cadorna
che entrano attraverso la Breccia di Porta Pia e
il 2 ottobre un plebiscito approva l'unione di
Roma e Lazio all'Italia.
Nel 1871, dopo oltre mille anni, la capitale
torna ad essere definitivamente Roma e viene
approvata unilateralmente la Legge delle
Guarentigie (Pio IX non risconosce il fatto
compiuto e si rifiuta di accettare tale legge)
con la quale si attribuisce al papa l'inviolabilità
e si lasciano in dotazione al pontefice i palazzi
del Vaticano, del Laterano e di Castel Gandolfo
assegnandogli una somma dal bilancio dello
stato. Tale legge non fu mai riconosciuta dal
Vaticano ma rimase in vigore fino ai Patti
Lateranensi del 1929 che regolarono
definitivamente (fino ad oggi, salvo la riforma
del solo Concordato avvenuta nel 1985) i
rapporti Stato-Chiesa.
FERMO CITTÀ NOSTALGICA, IL CARDINALE
DE ANGELIS E IL DECRETO MINGHETTI, MAI
APPROVATO DAL PARLAMENTO, MA CHE DI
FATTO LA PRIVA DELLA SEDE
AMMINISTRATIVA
Con la Battaglia di Castelfidardo era caduto
lo Stato Pontificio nelle Marche e in Umbria, e
con il successivo plebiscito del 4-5 novembre
1860 l'intera regione era stata annessa allo
Stato Piemontese nel quale Fermo è capoluogo
di una provincia con quarantasette comuni e
110.000 abitanti: le circoscrizioni territoriali
delle Marche vengono confermate dal Decreto
n. 568 del 6 dicembre 1860 del Regio
Commissario per le Marche, Lorenzo Valerio (e
sono sei: Urbino e Pesaro; Ancona; Macerata;
Camerino; Fermo; Ascoli).
Ecco i risultati del plebiscito negli undici
comuni del mandamento di Fermo :
5224 si - 39 no - 6 nulli; però su 9144 aventi
diritto al voto andarano a votare solo 5269
(3875 gli astenuti). Votò soltanto il 58% degli
aventi diritto.
L'alto numero degli astenuti ebbe influenza
negativa nel giudizio del ministro degli affari
interni Marco Minghetti sulla provincia
fermana, già tradizionalmente molto vicina al
papato.
Vittorio Emanuele II arriva ad Ancona via
mare subito dopo il gen. Cialdini e visita i
capoluoghi delle Marche prima di proseguire
per la Capania dove incontrerà Garibaldi. Il re
doveva recarsi anche a Fermo ma vengono
frapposti ostacoli di ordine politico: Fermo
restava ancora una roccaforte del potere
papalino, in città si trovavano i potenti
cardinali Bernetti e De Angelis, fermani. Il
primo era segretario di stato Vaticano e in
precedenza aveva contribuito notevolmente
all'elezione del papa regnante, Pio IX (Mastai
Ferretti di Senigallia), mentre il card. De
Angelis era stato tra i principali candidati al
soglio pontificio quando fu eletto Pio IX (non
fu eletto papa per pochi voti), era un indomito
sostenitore del mantenimento del potere
temporale del papa e si opponeva ancora in
modo fattivo (per non dire sovversivo) al
processo unificatore.
E' una situazione politica che peserà sul futuro
della città.
A nulla serve la successiva visita "riparatoria"
dei membri del comitato liberale fermano,
guidati dal conte Domenico Monti (ultimo
presidente della provincia fermana e amico
personale del Re) che l'11 ottobre vanno ad
ossequiare Vittorio Emanuele II a
Grottammare, ospite dei marchesi Laureati,
ricevendo asssicurazioni sulla protezione di
Fermo.
Nonostante i fasti del passato e la grandezza politica e
culturale che ancora la caratterizza, nonostante sia la terza
città delle Marche per dimensioni dopo Ancona e Pesaro, il
22 dicembre 1860, a seguito del Regio Decreto 4495 del
Ministro dell'interno Marco Minghetti e del luogotenete
Eugenio Di Savoia (che effettua un improvviso riordino delle
circoscrizioni del nuovo Stato unitario), la provincia di Fermo
viene
unita a quella confinante di Ascoli a formare l'attuale
provincia, con capoluogo Ascoli anzichè Fermo o entrambe e
questo nonostante all'epoca Fermo fosse più grande e
importante di Ascoli e la provincia di Fermo fosse più
importante per popolazione, estensione, reddito, estimo
catastale e viabilità, di quella di Ascoli (vedi tabella in
basso).
E nonostante il nuovo capoluogo fosse decentrato e mal
collegato rispetto a tutto il resto della provincia, soprattutto
alla parte nord (come lo è rimasto ancora al giorno d'oggi).
La provincia di Fermo aveva una popolazione di 110.321 abitanti (quella di Ascoli 91.916) e
comprendeva più comuni dell'altra.
Tutto questo solo perché Ascoli - come vedremo avanti - dava maggiori garanzie patriottiche
rispetto a Fermo.
Il 26 dicembre si riunisce la commissione municipale di Fermo che scrive al ministro Minghetti e
poi decide di inviare subito a Torino una deputazione (composta dall'avvocato Morichelli e
dell'ingegnere Carducci appoggiati nella capitale dal deputato fermano conte Gigliucci) per
effettuare pressione sul Governo e sul Re allo scopo di modificare il decreto.
Scrive il Regio Commissario Domenico Valerio: «Mentre a Camerino (la cui piccola provincia
era stata unita a Macerata) il risentimento non è notevole a Fermo la commozione è grave
perché la città di Fermo aveva titoli per essere mantenuta provincia» al punto che l'entusiasmo
per la raggiunta Unità nazionale passa addiruttura in secondo piano e comincia un'azione di
rivalsa politica che degenera presto anche in proteste di piazza che assumono la forma di tumulti
ed escandescenze (più in là, nel 1873, nell'ennesima manifestazione di piazza ci sarà anche un
morto).
Scrive Il Corriere delle Marche: «C'è la necessità di restituire alla provincia il capoluogo che le
assegnò la natura. Ascoli, posto in mezzo ai monti, all'estremo lembo della provincia, è il luogo
meno adatto per tenervi la sede del capoluogo».
La commissione muncipale di Fermo si dimette per protesta.
Sono soltanto le prime due iniziative di una lunghissima serie (giunta fino ai giorni nostri),
sinteticamente illustrata nella cronistoria riportata più in basso.
I MOTIVI DI FACCIATA - Il motivo formale addotto dal Governo fu quello della "centralità
geografica" che avrebbe acquisito Ascoli rispetto alla nuova provincia perché il progetto
prevedeva di accorpare all'Ascolano non solo il Fermano ma anche il Teramano. In quel caso
Ascoli sarebbe stata davvero al centro della nuova provincia, che invece non si formò mai perché
il Teramano riuscì a rimanere col suo vecchio capoluogo. Il Governo Sabaudo disse che voleva
unire queste tre province per "armonizzare" la popolazione, creandone una nuova a cavallo di
quel fiume Tronto che per secoli aveva diviso le due popolazioni vicine rappresentando il confine
secolare tra Stato Pontificio e Regno Borbonico.
I VERI MOTIVI - In realtà i motivi di fondo, mai ammessi anche se chiari sin dall'inizio, stavano
nel privare del capoluogo due città che avrebbero potuto rappresentare un pericolo
all'unificazione appena raggiunta.
Come accennato, arcivescovo di Fermo era il cardinal De Angelis, che non era stato eletto papa
per pochi voti, irriducibile difensore del potere temporale del papa e che si era dato troppo da
fare con la sua azione apertamente reazionaria e "austriacante". De Angelis era molto potente e
temuto a Fermo, per anni aveva tenuto sottomesse le autorità amministrative e giudiziarie
fermane. Il Finali definiva De Angelis «istigatore di reazioni armate», il Leti invece lo definiva
«un uomo battagliero, ricco e circondato da un numeroso clero compatto, organizzatore di
armati e incettatore di armi»; il C.A. Vecchi, ascolano, racconta che su ordine di De Angelis ad
Ascoli furono arrestati un conte ed un marchese come cospiratori contro il governo papale.
Fermo per molti anni si era dimostrata un buon centro strategico della reazione armata e
antirivoluzionaria (vennero scoperti in città alcuni documenti militari) e questo nonostante si
trovassero a Fermo anche ottimi elementi liberali e patrioti (come lo stesso conte cav. Domenico
Monti, amico personale del re e che fu l'ultimo presidente della provincia di Fermo).
Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu quando l'arcivescovo cardinale il 17 settembre
(giorno prima dell'arrivo delle truppe piemontesi nelle Marche) propagò una circolare in cui
intimava a tutti i religiosi della circoscrizione «di non riconoscere il governo invasore, di non
accettare impieghi e incombenze, di non prestarvi giuramenti di fedeltà, di non consegnare ai
ministri del governo intruso l'elenco dei parrocchiani per la formazione della Guardia Civica». [in
Archivio Diocesano di Fermo]
Invece, il giorno successivo alla Battaglia di Castelfidardo (19 settembre), il gonfaloniere
fermano Antonio Brancadoro aveva rifornito di viveri i militari pontifici allo sbando dopo la
sconfitta.
L'atteggiamento ostile, quasi brigantesco, di molto clero piceno, non piacque alle nuove
autorità che decidettero di privare subito la città del suo cardinale (che fu tradotto nelle carceri di
Torino il 28 settembre 1860), poi, tre mesi più tardi, anche della sede provinciale allo scopo di
togliere il monopolio del potere dalle mani dell'elemento clericale e potenziare invece Ascoli che,
sebbene da sempre città di secondo piano rispetto a Fermo, dava però in quel momento
maggiori granzie patriottiche e risorgimentali per la presenza in loco di un gruppo dirigente di
più forte fede liberale e perché da quel capoluogo posto sul vecchio confine, si poteva
controllare meglio da vicino il fenomeno dell'insorgenza, forte soprattutto nel Teramano
(essendo al confine anche del vecchio Regno di Napoli).
Nei riguardi di Teramo si volevano annientare - per l'appunto - le organizzazioni brigantesche
che infestavano la provincia e avevano in Civitella del Tronto un'autentica roccaforte
dell'insorgenza e del potere reazionario borbonico, e il progetto prevedeva addirittura di
smembrare la provincia, consegnandone una parte a nord ad Ascoli e l'altra a sud a Chieti
(Pescara non era ancora provincia, lo diventerà solo negli anni Trenta).
Nonostante ciò, però, la provincia di Teramo, che contava circa 250.000 abitanti estendendosi
dal fiume Tronto al fiume Pescara (la provincia di Pescara ancora non esisteva) riuscì a salvarsi
per la notevole pressione che la Luogotenenza Napoletana fece a Torino, mentre la sorte di
Fermo fu segnata dal decreto Minghetti del 22 dicembre 1860 che andò subito in esecuzione
nonostante esso non fosse mai stato approvato dal Parlamento, come invece richiedeva la legge
(lo Statuto Albertino).
Rimanendo Teramo per conto proprio, Ascoli non si trovò più al centro della provincia e, ad
un certo punto, sembrò che questo fatto potesse restituire la provincia a Fermo: «Le cose di
Fermo si accomodano perché di Teramo non se ne fa altro» disse il ministro Minghetti al
deputato fermano, conte Gigliucci, a Torino sei mesi dopo il decreto, ma le cose non
cambiarono lo stesso.
Evidentemente era maggiore il timore verso Fermo: basti ricordare gli ostacoli frapposti alla
visita che il Re avrebbe dovuto compiere a Fermo subito dopo l'unificazione come negli altri
capoluoghi marchigiani e la minaccia di attentati.
In conclusione la sorte di Fermo fu decisa d'istinto, con una decisione affrettata «voluta da un
momento di indignazione del Cavour e del ministro Minghetti», con un decreto che non è stato
mai approvato e convertito dal Parlamanto (come invece voleva la Costituzione in vigore) e
quindi privo di valore ma che fu eseguito lo stesso; decisione che però lascerà il suo segno
molto a lungo nel tempo anche quando i timori e i motivi che l'avevamo determinata non
avranno più ragion d'essere, fino ai nostri giorni.
[la maggior parte delle notizie è tratta da «Una vicenda della rivalità municipale sorta con l'Unità
d'Italia», prof. Bruno Ficcadenti - Urbino, 1973]
Nonostante i
fasti del
passato e la
grandezza
politica e
culturale che
ancora la
caratterizza,
nonostante
sia la terza
città delle
Marche per
dimensioni
dopo
Ancona e
Pesaro, il 22
dicembre
1860, a
seguito del
Regio
Decreto 4495 del Ministro dell'interno Marco
Minghetti e del luogotenete Eugenio Di Savoia
(che effettua un improvviso riordino delle
circoscrizioni del nuovo Stato unitario), la
provincia di Fermo viene
unita a quella confinante di Ascoli a formare
l'attuale provincia, con capoluogo Ascoli
anzichè Fermo o entrambe e questo nonostante
all'epoca Fermo fosse più grande e importante
di Ascoli e la provincia di Fermo fosse più
importante per popolazione, estensione,
reddito, estimo catastale e viabilità, di quella di
Ascoli (vedi tabella in basso).
E nonostante il nuovo capoluogo fosse
decentrato e mal collegato rispetto a tutto il
resto della provincia, soprattutto alla parte nord
(come lo è rimasto ancora al giorno d'oggi).
La provincia di Fermo aveva una popolazione di
110.321 abitanti (quella di Ascoli 91.916) e
comprendeva più comuni dell'altra.
Tutto questo solo perché Ascoli - come
vedremo avanti - dava maggiori garanzie
patriottiche rispetto a Fermo.
Il 26 dicembre si riunisce la commissione
municipale di Fermo che scrive al ministro
Minghetti e poi decide di inviare subito a Torino
una deputazione (composta dall'avvocato
Morichelli e dell'ingegnere Carducci appoggiati
nella capitale dal deputato fermano conte
Gigliucci) per effettuare pressione sul Governo
e sul Re allo scopo di modificare il decreto.
Scrive il Regio Commissario Domenico
Valerio: «Mentre a Camerino (la cui piccola
provincia era stata unita a Macerata) il
risentimento non è notevole a Fermo la
commozione è grave perché la città di Fermo
aveva titoli per essere mantenuta provincia» al
punto che l'entusiasmo per la raggiunta Unità
nazionale passa addiruttura in secondo piano e
comincia un'azione di rivalsa politica che
degenera presto anche in proteste di piazza che
assumono la forma di tumulti ed
escandescenze (più in là, nel 1873,
nell'ennesima manifestazione di piazza ci sarà
anche un morto).
Scrive Il Corriere delle Marche: «C'è la
necessità di restituire alla provincia il capoluogo
che le assegnò la natura. Ascoli, posto in
mezzo ai monti, all'estremo lembo della
provincia, è il luogo meno adatto per tenervi la
sede del capoluogo».
La commissione muncipale di Fermo si dimette
per protesta.
Sono soltanto le prime due iniziative di una
lunghissima serie (giunta fino ai giorni nostri),
sinteticamente illustrata nella cronistoria
riportata più in basso.
I MOTIVI DI FACCIATA - Il motivo formale
addotto dal Governo fu quello della "centralità
geografica" che avrebbe acquisito Ascoli
rispetto alla nuova provincia perché il progetto
prevedeva di accorpare all'Ascolano non solo il
Fermano ma anche il Teramano. In quel caso
Ascoli sarebbe stata davvero al centro della
nuova provincia, che invece non si formò mai
perché il Teramano riuscì a rimanere col suo
vecchio capoluogo. Il Governo Sabaudo disse
che voleva unire queste tre province per
"armonizzare" la popolazione, creandone una
nuova a cavallo di quel fiume Tronto che per
secoli aveva diviso le due popolazioni vicine
rappresentando il confine secolare tra Stato
Pontificio e Regno Borbonico.
I VERI MOTIVI - In realtà i motivi di fondo,
mai ammessi anche se chiari sin dall'inizio,
stavano nel privare del capoluogo due città che
avrebbero potuto rappresentare un pericolo
all'unificazione appena raggiunta.
Come accennato, arcivescovo di Fermo era il
cardinal De Angelis, che non era stato eletto
papa per pochi voti, irriducibile difensore del
potere temporale del papa e che si era dato
troppo da fare con la sua azione apertamente
reazionaria e "austriacante". De Angelis era
molto potente e temuto a Fermo, per anni
aveva tenuto sottomesse le autorità
amministrative e giudiziarie fermane. Il Finali
definiva De Angelis «istigatore di reazioni
armate», il Leti invece lo definiva «un uomo
battagliero, ricco e circondato da un numeroso
clero compatto, organizzatore di armati e
incettatore di armi»; il C.A. Vecchi, ascolano,
racconta che su ordine di De Angelis ad Ascoli
furono arrestati un conte ed un marchese come
cospiratori contro il governo papale.
Fermo per molti anni si era dimostrata un
buon centro strategico della reazione armata e
antirivoluzionaria (vennero scoperti in città
alcuni documenti militari) e questo nonostante
si trovassero a Fermo anche ottimi elementi
liberali e patrioti (come lo stesso conte cav.
Domenico Monti, amico personale del re e che
fu l'ultimo presidente della provincia di
Fermo).
Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu
quando l'arcivescovo cardinale il 17 settembre
(giorno prima dell'arrivo delle truppe
piemontesi nelle Marche) propagò una circolare
in cui intimava a tutti i religiosi della
circoscrizione «di non riconoscere il governo
invasore, di non accettare impieghi e
incombenze, di non prestarvi giuramenti di
fedeltà, di non consegnare ai ministri del
governo intruso l'elenco dei parrocchiani per la
formazione della Guardia Civica». [in Archivio
Diocesano di Fermo]
Invece, il giorno successivo alla Battaglia di
Castelfidardo (19 settembre), il gonfaloniere
fermano Antonio Brancadoro aveva rifornito di
viveri i militari pontifici allo sbando dopo la
sconfitta.
L'atteggiamento ostile, quasi brigantesco, di
molto clero piceno, non piacque alle nuove
autorità che decidettero di privare subito la città
del suo cardinale (che fu tradotto nelle carceri
di Torino il 28 settembre 1860), poi, tre mesi
più tardi, anche della sede provinciale allo
scopo di togliere il monopolio del potere dalle
mani dell'elemento clericale e potenziare invece
Ascoli che, sebbene da sempre città di secondo
piano rispetto a Fermo, dava però in quel
momento maggiori granzie patriottiche e
risorgimentali per la presenza in loco di un
gruppo dirigente di più forte fede liberale e
perché da quel capoluogo posto sul vecchio
confine, si poteva controllare meglio da vicino il
fenomeno dell'insorgenza, forte soprattutto nel
Teramano (essendo al confine anche del
vecchio Regno di Napoli).
Nei riguardi di Teramo si volevano annientare -
per l'appunto - le organizzazioni brigantesche
che infestavano la provincia e avevano in
Civitella del Tronto un'autentica roccaforte
dell'insorgenza e del potere reazionario
borbonico, e il progetto prevedeva addirittura
di smembrare la provincia, consegnandone una
parte a nord ad Ascoli e l'altra a sud a Chieti
(Pescara non era ancora provincia, lo diventerà
solo negli anni Trenta).
Nonostante ciò, però, la provincia di Teramo,
che contava circa 250.000 abitanti
estendendosi dal fiume Tronto al fiume Pescara
(la provincia di Pescara ancora non esisteva)
riuscì a salvarsi per la notevole pressione che la
Luogotenenza Napoletana fece a Torino,
mentre la sorte di Fermo fu segnata dal decreto
Minghetti del 22 dicembre 1860 che andò
subito in esecuzione nonostante esso non fosse
mai stato approvato dal Parlamento, come
invece richiedeva la legge (lo Statuto
Albertino).
Rimanendo Teramo per conto proprio, Ascoli
non si trovò più al centro della provincia e, ad
un certo punto, sembrò che questo fatto
potesse restituire la provincia a Fermo: «Le
cose di Fermo si accomodano perché di
Teramo non se ne fa altro» disse il ministro
Minghetti al deputato fermano, conte Gigliucci,
a Torino sei mesi dopo il decreto, ma le cose
non cambiarono lo stesso.
Evidentemente era maggiore il timore verso
Fermo: basti ricordare gli ostacoli frapposti alla
visita che il Re avrebbe dovuto compiere a
Fermo subito dopo l'unificazione come negli
altri capoluoghi marchigiani e la minaccia di
attentati.
In conclusione la sorte di Fermo fu decisa
d'istinto, con una decisione affrettata «voluta da
un momento di indignazione del Cavour e del
ministro Minghetti», con un decreto che non è
stato mai approvato e convertito dal
Parlamanto (come invece voleva la Costituzione
in vigore) e quindi privo di valore ma che fu
eseguito lo stesso; decisione che però lascerà il
suo segno molto a lungo nel tempo anche
quando i timori e i motivi che l'avevamo
determinata non avranno più ragion d'essere,
fino ai nostri giorni.
[la maggior parte delle notizie è tratta da «Una
vicenda della rivalità municipale sorta con
l'Unità d'Italia», prof. Bruno Ficcadenti -
Urbino, 1973]
lmmagine in basso (da una carta geografica d'epoca): la nuova "PROVINCIA DI FERMO ED
ASCOLI" (come si legge in basso). In realtà, nonostante la città più grande ed importante fosse
Fermo (come si denota dal disegno), il capoluogo aveva la sede soltanto nel secondo centro. I
confini sono gli stessi di oggi.
lmmagine in basso (da una carta geografica
d'epoca): la nuova "PROVINCIA DI FERMO ED
ASCOLI" (come si legge in basso). In realtà,
nonostante la città più grande ed importante
fosse Fermo (come si denota dal disegno), il
capoluogo aveva la sede soltanto nel secondo
centro. I confini sono gli stessi di oggi.
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Cronistoria delle principali iniziative prese dal 1860 ad oggi a difesa della provincia fermana
Cronistoria delle principali iniziative prese dal
1860 ad oggi a difesa della provincia fermana
In basso: l'incremento demografico dei cinque capoluoghi della regione a confronto.
(dati dal 1861 forniti dall'ufficio regionale statistica dell'ISTAT - Ancona)
Lo scippo della provincia ha chiaramente frenato il possibile sviluppo di Fermo.
In basso: l'incremento demografico dei cinque
capoluoghi della regione a confronto.
(dati dal 1861 forniti dall'ufficio regionale
statistica dell'ISTAT - Ancona)
Lo scippo della provincia ha chiaramente frenato
il possibile sviluppo di Fermo.
altre città
(fonte: ufficio regionale statistica dell'ISTAT - Ancona)
altre città
(fonte: ufficio regionale statistica dell'ISTAT -
Ancona)
Nonostante la privazione della sede provinciale, la città subisce egualmente una trasformazione
edilizia e un processo di sviluppo, anche se esso sarà necessariamente più lento rispetto a quello
subito dai vicini capoluoghi Ascoli e Macerata.
Risale a questo periodo la realizzazione di due tra le più importanti opere pubbliche degli ultimi
secoli, la c.d. "Strada Nuova" e la Ferrovia Porto San Giorgio - Fermo - Amandola.
La "Strada Nuova" (oggi via Roma, Piazza O.
Ricci, via Trevisani, via XX settembre, viale
Vittorio Veneto e piazzale T.C.Onesti ) fu iniziata
dall'architetto G. Dasti e completata dall'arch.
fermano Giambattista Carducci per dotare il
centro storico di Fermo di un accesso più
comodo e importante rispetto alle ripide e
anguste strade medievali e fu realizzata nell'arco
di molti anni tra il 1870 e il 1890 con lavori di
sventramento della parte est dell'abitato (zona di
via Roma), di sbancamento del lato sud della collina. Con altri lavori di demolizione fu sistemato il
collegamento tra la zona di Campoleggio e la "Strada Nuova" (via Lattanzio Firmiano, c.d. "salita
di S. Pietro"). Successivamente, con la realizzazione anche di una breve galleria per evitare una
curva a gomito e rendere possibile sulla Strada nuova anche il transito di veicoli a rotaia.
Infatti il 14 dicembre 1909 entra in funzione una ferrovia a scartamento ridotto e trazione a vapore,
progettata dall'ingegnere milanese Ernesto Besenzanica, che collega la linea adriatica (aperta nel
1863) da Porto San Giorgio ad Amandola, cittadina ai piedi dei Monti Sibillini, passando per
Fermo e la valle del Tenna. Per collegare ancora meglio il centro di Fermo fu costruita anche una
diramazione che, dal fianco della città, arrivava fino alle porte della centralissima Piazza del
Popolo come una vera e propria linea tramviaria, passando appunto lungo la Strada Nuova.
Il 28 maggio 1928 la ferrovia fu elettrificata e si progettò anche un suo prolungamento attraverso la
Val Nerina fino a Spoleto e Terni (dove si sarebbe ricongiunta con la linea che da Ancona
conduceva a Roma), ma il prolungamento non fu mai più realizzato.
Nonostante la privazione della sede provinciale,
la città subisce egualmente una trasformazione
edilizia e un processo di sviluppo, anche se esso
sarà necessariamente più lento rispetto a quello
subito dai vicini capoluoghi Ascoli e Macerata.
Risale a questo periodo la realizzazione di due
tra le più importanti opere pubbliche degli ultimi
secoli, la c.d. "Strada Nuova" e la Ferrovia Porto
San Giorgio - Fermo - Amandola.
La "Strada
Nuova"
(oggi via
Roma,
Piazza O.
Ricci, via
Trevisani, via XX settembre, viale Vittorio
Veneto e piazzale T.C.Onesti ) fu iniziata
dall'architetto G. Dasti e completata dall'arch.
fermano Giambattista Carducci per dotare il
centro storico di Fermo di un accesso più
comodo e importante rispetto alle ripide e
anguste strade medievali e fu realizzata nell'arco
di molti anni tra il 1870 e il 1890 con lavori di
sventramento della parte est dell'abitato (zona di
via Roma), di sbancamento del lato sud della
collina. Con altri lavori di demolizione fu
sistemato il collegamento tra la zona di
Campoleggio e la "Strada Nuova" (via Lattanzio
Firmiano, c.d. "salita di S. Pietro").
Successivamente, con la realizzazione anche di
una breve galleria per evitare una curva a gomito
e rendere possibile sulla Strada nuova anche il
transito di veicoli a rotaia.
Infatti il 14 dicembre 1909 entra in funzione una
ferrovia a scartamento ridotto e trazione a
vapore, progettata dall'ingegnere milanese
Ernesto Besenzanica, che collega la linea
adriatica (aperta nel 1863) da Porto San Giorgio
ad Amandola, cittadina ai piedi dei Monti
Sibillini, passando per Fermo e la valle del
Tenna. Per collegare ancora meglio il centro di
Fermo fu costruita anche una diramazione che,
dal fianco della città, arrivava fino alle porte della
centralissima Piazza del Popolo come una vera
e propria linea tramviaria, passando appunto
lungo la Strada Nuova.
Il 28 maggio 1928 la ferrovia fu elettrificata e si
progettò anche un suo prolungamento attraverso
la Val Nerina fino a Spoleto e Terni (dove si
sarebbe ricongiunta con la linea che da Ancona
conduceva a Roma), ma il prolungamento non fu
mai più realizzato.
Nel 1909 era stato aperto anche il primo cinematografo della città, il Cinema Helios, uno dei primi
della regione, esistente ancora oggi nella stessa sede storica, ricavata all'interno della vecchia
chiesa di San Rocco.
In epoca fascista (grazie anche a Di Crollalanza, ministro dei lavori pubblici di origini fermane),
compaiono a Fermo le prime moderne case in cemento armato: abitazioni popolari fuori della
vecchia cinta medievale (piazzale Colombo); il nuovo Ospedale Civile fuori zona Campoleggio
(inaugurato nel gennaio 1933 e poi intitolato al concittadino Augusto Murri, insigne clinico), il
ricostruito e ampliato Tribunale in corso Cavour (inaugurato nel gennaio 1933) e il nuovo Campo
sportivo comunale, (inaugurato nel gennaio 1934 e inizialmente dedicato alla memoria di Sandro
Mussolini, nipote del Duce: foto in basso), dotato di una delle prime tribune costruite in Italia con
pensilina a sbalzo in cemento armato con la tecnica dei tiranti in ferro, esistente ancora oggi.
Più tardi viene dedicato alla memoria del giovane fermano Bruno Recchioni, capitano di fanteria,
caduto a Cefalonia il 22 settembre 1943, già giocatore della Fermana nel ruolo di mediano.
Una immagine del 1934 del Campo Sportivo di "via del mare" appena inaugurato e dedicato alla
memoria di Sandro Italico Mussolini (nipote del Duce morto giovane).
Subito dopo la guerra fu dedicato al fermano Bruno Recchioni, capitano di fanteria, morto il 22
settembre 1943 nell'Isola di Cefalonia (Grecia) in cui i nazisti uccisero più di cinquemila italiani.
Si può notare il profilo della tettoia a sbalzo, all'epoca una costruzione avveniristica che
pochissime città in Italia potevano vantare.
Nell'ottobre 1932 è pavimentata (tra le prime nelle Marche) la strada provinciale Fermo-Porto San
Giorgio ("via del mare", oggi viale Trento).
Pochi anni più tardi la strada comunale Castiglionese (che collegava Fermo con Monte Caccione)
viene prolungata fino a Porto San Giorgio e trasformata in provinciale, poi viene realizzato il primo
tratto di otto chilometri della strada provinciale val d'Ete da S. Maria a Mare verso l'interno.
Nel 1909 era stato aperto anche il primo
cinematografo della città, il Cinema Helios, uno
dei primi della regione, esistente ancora oggi
nella stessa sede storica, ricavata all'interno
della vecchia chiesa di San Rocco.
In epoca fascista (grazie anche a Di
Crollalanza, ministro dei lavori pubblici di origini
fermane), compaiono a Fermo le prime
moderne case in cemento armato: abitazioni
popolari fuori della vecchia cinta medievale
(piazzale Colombo); il nuovo Ospedale Civile
fuori zona Campoleggio (inaugurato nel
gennaio 1933 e poi intitolato al concittadino
Augusto Murri, insigne clinico), il ricostruito e
ampliato Tribunale in corso Cavour (inaugurato
nel gennaio 1933) e il nuovo Campo sportivo
comunale, (inaugurato nel gennaio 1934 e
inizialmente dedicato alla memoria di Sandro
Mussolini, nipote del Duce: foto in basso),
dotato di una delle prime tribune costruite in
Italia con pensilina a sbalzo in cemento armato
con la tecnica dei tiranti in ferro, esistente
ancora oggi.
Più tardi viene dedicato alla memoria del
giovane fermano Bruno Recchioni, capitano di
fanteria, caduto a Cefalonia il 22 settembre
1943, già giocatore della Fermana nel ruolo di
mediano.
Una immagine del 1934 del Campo Sportivo di
"via del mare" appena inaugurato e dedicato
alla memoria di Sandro Italico Mussolini (nipote
del Duce morto giovane).
Subito dopo la guerra fu dedicato al fermano
Bruno Recchioni, capitano di fanteria, morto il
22 settembre 1943 nell'Isola di Cefalonia
(Grecia) in cui i nazisti uccisero più di
cinquemila italiani.
Si può notare il profilo della tettoia a sbalzo,
all'epoca una costruzione avveniristica che
pochissime città in Italia potevano vantare.
Nell'ottobre 1932 è pavimentata (tra le prime
nelle Marche) la strada provinciale Fermo-Porto
San Giorgio ("via del mare", oggi viale
Trento).
Pochi anni più tardi la strada comunale
Castiglionese (che collegava Fermo con Monte
Caccione) viene prolungata fino a Porto San
Giorgio e trasformata in provinciale, poi viene
realizzato il primo tratto di otto chilometri della
strada provinciale val d'Ete da S. Maria a Mare
verso l'interno.